giovedì 10 gennaio 2013

tre e quattordici...



Lo so, si era partiti con l'idea dei film tamarri, con le pistolettate e gli scoppi, ma visto che era da un po' che non andavo al cinema ne approfitto perché 'sto filmone merita. E poi ci sono gli squali, gli animali feroci e navi giapponesi che affondano, perciò i suoi motivi per stare qui ce li ha. Detto questo andiamo avanti.

Ang Lee lo si conosce via, è quel taiwanese col sorriso simpatico che stava dietro la presa quando davanti passavano giganti verdi in split-screen, Hugh Grant ficcato in qualche modo in un romanzo della Austen e una coppietta di cow-boy moderni... molto moderni. Ma soprattutto ha schiaffato in faccia al grande pubblico quello che in oriente era una realtà da tempo: un tipo di action movie per noi nuovo, presentatoci senza il bisogno di contaminarlo per paura che non lo comprendessimo (come aveva fatto comunque con ottimi risultati il buon Jackie Chan).

E visto che il buon Lee si diverte a passare di palo in frasca, eccolo che ci regala qualcosa di ancora diverso, strizzando l'occhio a Bollywood ma destinando come sempre le sue opere a tutti, puntando al grande pubblico.
Per film di così larga distribuzione non sto qui a spiegare la storia, sinossi e spoiler si trovano un po' ovunque, preferisco buttarmi a pesce (non a caso) sulla pellicola.
Incuriosito da alcune particolari immagini che si intravedevano nel trailer, avevo un po' paura che il ritmo non fosse granché. Insomma, timore giustificato: Ang Lee, una scialuppa in mezzo al mare per tutto il film, i presupposti non erano rassicuranti. E invece, come spesso accade, ci si ricrede. La storia si presenta come un flashback narrato a voce dal protagonista ad uno scrittore piombatogli in casa per motivo vario ed eventuale e il film si sviluppa proprio con quel ritmo: quello di un racconto a voce, regolare, alternando passato e presente senza troppa regolarità e quindi senza annoiare. Lee si prende un bel pezzo di pellicola per caratterizzare tutti i personaggi, dando loro lo spessore dovuto, ciascuno col suo piccolo o grande contributo alla formazione di Pi. Andando controtendenza regala alla tigre solo una breve scena, guardandosi bene dal legare troppo Pi agli animali dello zoo, evitando così l'effetto "Disney": Pi non è un bambino speciale con il dono di capire al volo degli animali, è un normale ragazzino indiano che legge fumetti con le divinità indù, con la fissa della religione e che lo scoglio più difficile che ha dovuto superare è stato imparare a memoria tre lavagne di cifre decimali del Pi greco pur di sopravvivere agli sfottò dei compagni di scuola.
Lo stesso dicasi per Richard Parker (il felinone): per quanto romanzato non è un esemplare unico, ma una normale tigre che deve essere ammaestrata e che in più occasioni non disdegnerebbe di mozzicare il suo compagno di avventure. Tutto questo evita quell'effetto Disney che accennavo sopra, cosa che per esempio ha reso inguardabili i 140 minuti di War Horse (a cui devo dedicare un mini-post a parte per togliermi un sassolino dalla scarpa...).
La cosa sconcertante è proprio che la parte forse più lenta è proprio la prima: andrebbe visto senza sapere nulla, perché l'attesa del naufragio rende impazienti e perciò non si aspetta altro che si arrivi al dunque. Ed è un peccato perché l'ambientazione nell'India francese ha tutto il suo perché.
E quando finalmente ci ritroviamo sulla scialuppa la voce narrante del Pi adulto diventa quasi del tutto assente sostituita dai pensieri del Pi naufrago, furbo espediente che ci fa dimenticare di trovarci in un flashback e ci regala totale immersività.

Due aspetti restano nel cuore e rendono "Vita di Pi" un prodotto tutto particolare.
La prima è la piacevolissima ironia spalmata con maestria per tutta la pellicola: si sorride e si ride più di quanto ci si aspetti e le trovate spesso non sono banali, ma sottili, a volte surreali e spesso giocano sull'indianità tipicamente Bollywoodiana su cui si regge la storia. I giochi sui nomi dei due protagonisti, lo zio iper-toracico, le esplorazioni religiose di Pi, una godibile leggerezza che ci segue persino sulla sciluppa, senza però che venga minimamente compromessa l'empatia dello spettatore con i naufraghi e l'immersività nelle scene più toccanti.

La seconda sono i meravigliosi quadri che Lee si è preso la libertà di creare, anteponendo le esigenze narrative e simboliche al realismo. La scena della calma piatta all'alba, il plancton bioluminescente, l'isola dei suricata, giusto per citarne alcune, creano una pausa artistica e fiabesca che spezza la tensione e resta piacevolmente impressa nella memoria. Per chi ama il mare e i relitti come il sottoscritto, poi, l'inquadratura di Pi a mezz'acqua illuminato dalle luci della nave che affonda, beh, mozza davvero il fiato.

Tanta robba, neh???

Tra l'altro devo ammettere che una volta tanto il 3D non mi ha dato fastidio: c'era solo quello (scherziamo? C'era da lasciare spazio alle stra-cazzo di commedie italiane pagate coi soldi nostri...) quindi mi sono trovato costretto a inforcare gli occhialini, ma le inquadrature poco sature e pulite di Lee rendevano benissimo. Nono solo, la luce era opportunamente caricata nelle scene notturne e i piani erano quasi del tutto appiattiti nelle scene al chiuso e nei primi piani, tanto che si potevano guardare senza occhiali. Così si fa! Se dobbiamo sorbirci ancora 'sta mania inutile, almeno cari registi gestite la cosa come si deve!

E giusto per precisare:
Sì, c'è tanto mare e tante creature marine. La CGI c'è e si vede pure un tantino troppo qua e là, ma è funzionale al racconto e chissene perché è bella vera.
Sì, c'è la scena di ballo. Ci sono gli indiani, quindi a un certo punto ballano, come potrebbe essere altrimenti. Però non è un frammento di musical messo accazzo, ha una sua logica.

Ecco, non così, per capirci...

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